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Neuroni a specchio: meccanismi neurofisiologici dell'intersoggettività

Nietzsche in Aurora (1881) scrive: «Per comprendere l'altro, cioè per imitare i suoi sentimenti in noi stessi, noi ci mettiamo in una prospettiva di imitazione interna che in qualche modo fa sorgere, fa sgorgare dei sentimenti in noi analoghi, in virtù di un'antica associazione tra movimento e sensazione». I neuroni specchio, da un certo punto di vista, esemplificano questa relazione tra movimento e sensazione.
E' necessaria una premessa: un neurone non è un soggetto epistemico. Un neurone è una «macchina» che genera delle tensioni, dei voltaggi. L'unica cosa che un neurone verosimilmente conosce del mondo esterno è una manciata di ioni come potassio, sodio, calcio, cloro, ecc., che incessantemente escono ed entrano dai canali che ne attraversano la membrana. Non c'è nulla di intrinsecamente intenzionale nel funzionamento di un neurone. Ma questo neurone non è contenuto in una scatola magica; è contenuto in un organo — il cervello — che è legato, vincolato, cresce e si sviluppa in parallelo ad un corpo, attraverso il quale ha accesso al mondo esterno. Il cervello che studiamo non è quindi quello degli esperimenti «pensati» dalla filosofia analitica, il cervello nel vaso (brain in a vat), per così dire, ma è un organo legato ad un corpo che agisce, che si muove, che patisce nel suo continuo interscambio con il mondo.
La dimensione interpersonale è fondamentale per capire che cosa succede all'interno del nostro sistema nervoso centrale quando entriamo nel dominio dell'intelligenza sociale. Ma il paradigma con cui ancora ci si confronta, è quello della scienza cognitiva classica, che ha completamente reificato la dimensione corporea dello psichismo e dei processi cognitivi, e soprattutto, ha concentrato ogni sforzo nell'enucleazione di regole formali che strutturerebbero il funzionamento del nostro apparato cognitivo. Lo ha fatto iscrivendolo in una realtà solipsistica, dimenticando completamente l'influenza dell'interscambio, dell'intersoggettività, nel costruirsi, svilupparsi e consolidarsi delle supposte architetture computazionali che il cognitivismo classico ha fatto oggetto del proprio studio. 
Sono stati scoperti neuroni nella corteccia premotoria del macaco che scaricano ogni volta che l'animale esegue con la mano o con la bocca atti motori finalizzati al raggiungimento di uno scopo, come afferrare, prendere del cibo, manipolarlo, romperlo, spezzarlo, ed anche quando l'animale è lo spettatore passivo di azioni analoghe eseguite da un essere umano o da un'altra scimmia. Tali neurono sono stati denominati «neuroni specchio» (Gallese et al., 1996; Rizzolatti et al., 1996; Rizzolatti e Craighero, 2004).
I neuroni specchio si attivano anche quando l'osservazione dell'interazione tra la mano dell'attore e l'oggetto non è pienamente visibile, ma può solo essere «inferita» (Umiltà et al., 2001). Solo che in questo caso non parliamo di un'inferenza logica, bensì del risultato di una simulazione motoria. L'attivazione nell'osservatore del programma motorio corrispondente all'azione solo parzialmente vista, ne consente la comprensione. E' stato anche scoperto che se l'azione si accompagna ad un suono caratteristico, come quando si rompe una nocciolina, il solo suono dell'azione è sufficiente ad attivare i neuroni specchio (Kohler et al., 2002). Quindi, lo stesso contenuto semantico, «rompere la nocciolina», attiva i neuroni specchio indipendentemente dalla modalità sensoriale che lo veicola. È un meccanismo che incarna a suo modo una rappresentazione astratta dell'azione, che però è tutto fuorché astratta perché incarnata all'interno del nostro sistema motorio.
Una serie di studi hanno dimostrato che un meccanismo analogo di rispecchiamento è presente anche nel cervello umano, ed è organizzato in modo grossolanamente somatotopico. Quando osserviamo azioni eseguite da altri con la bocca, la mano, o il piede, attiviamo regioni del nostro sistema motorio fronto-parietale corrispondenti a quelle che entrano in gioco quando noi stessi eseguiamo azioni simili a quelle che stiamo osservando. Non ci limitiamo a vedere con la parte visiva del nostro cervello, ma utilizzando anche il nostro sistema motorio (Gallese, Keysers e Rizzolatti, 2004; Rizzolatti e Craighero, 2004).
Cosa succede nel nostro cervello quando osserviamo i gesti comunicativi di una persona che parla, di una scimmia che comunica con il lipsmaking (ritmica apertura delle labbra, un gesto affiliativo che sta ad indicare ai conspecifici l'assenza di intenzioni aggressive), e di un cane che abbaia? La risposta ci viene da un studio fMRI condotto da Buccino et al. (2004a). Quando vediamo l'uomo parlare si osserva un'attivazione bilaterale del sistema pre-motorio che include l'area di Broca; quando vediamo la scimmia si osserva un'attivazione premotoria bilaterale di intensità ridotta; infine, quando vediamo il cane abbaiare si ha un'assenza completa di attivazione motoria. I risultati di questo esperimento ci dicono due cose: primo, che non è necessaria una risonanza motoria per comprendere ciò che vediamo: sappiamo benissimo che c'è un cane che abbaia, ma la qualità della nostra comprensione dell'abbaiare del cane è molto diversa dalla qualità del nostro comprendere che c'è un uomo che parla. Questo «riempimento» esperienziale è precisamente il risultato dell'attivazione della simulazione incarnata, del meccanismo cioè sostenuto dai neuroni specchio. Grazie alla simulazione incarnata ho la capacità di riconoscere in quello che vedo qualcosa con cui «risuono», di cui mi approprio esperienzialmente, che posso fare mio. Il significato delle esperienze altrui è compreso non in virtù di una spiegazione ma grazie ad una comprensione diretta, per così dire, dall'interno.
E' stato dimostrato che il sistema dei neuroni specchio è alla base non solo della capacità di riconoscere e comprendere le azioni altrui, ma anche le intenzioni che le hanno promosse (Fogassi et al., 2005; Iacoboni et al., 2005). Altri studi inoltre suggeriscono che il sistema dei neuroni specchio sia non solo coinvolto nella comprensione del significato delle azioni osservate, ma si attivi anche durante la comprensione di espressioni linguistiche descriventi le stesse azioni (Gallese, 2007). 
Il mimetismo caratterizza in modo pervasivo la dimensione sociale dell'esistenza umana, e lo fa a più livelli. Ad esempio, la psicologia sociale ha descritto e studiato il cosiddetto «effetto camaleonte» (Chartrand e Bargh, 1997; cfr. anche Niedenthal et al., 2005). Mimiamo inconsapevolmente il comportamento non verbale altrui; ci piace di più chi ci imita; il mimarsi reciproco incrementa quanto più personale è la relazione con l'altro; il mimarsi reciproco incrementa quando abbiamo lo scopo di affiliare qualcun altro; dopo un fallimento nell'affiliare qualcuno, al tentativo successivo, cerchiamo di imitarlo di più, e potremmo continuare con ulteriori esempi (cfr. Ferguson e Bargh, 2004). Il mimetismo è quindi uno strumento fondamentale nella costruzione del gradimento sociale. E risulta essere uno strumento importante anche nella costruzione di stereotipi cognitivi. Un esperimento ha esplorato il ruolo del mimetismo cognitivo nell'espressione delle competenze di cultura generale, chiedendo a soggetti volontari adulti sani di rispondere alle domande di cultura generale del gioco di società «Trivial Pursuit» (Ferguson e Bargh, 2004). I soggetti che prima di essere sottoposti alle domande erano stati impegnati per trenta minuti a leggere articoli sugli Hooligan hanno mostrato performance significativamente inferiori rispetto a soggetti che per trenta minuti avevano letto narrative su scienziati o scrittori. Se — grazie alla simulazione — entriamo anche solo per mezz'ora nel framing cognitivo di un Hooligan, il nostro preesistente bagaglio culturale produce una performance più scadente rispetto a quando entriamo per un periodo equivalente nel framing cognitivo di un intellettuale.
I meccanismi di simulazione ci forniscono uno strumento per condividere a livello esperienziale gli stati mentali altrui. Da un certo punto di vista, la simulazione incarnata può essere considerata come il correlato funzionale dell'empatia. Una serie di nuovi studi sembra mostrare come molti di questi meccanismi appaiano perturbati nell'autismo infantile (per una rassegna, Gallese, 2003, 2006). Siamo ancora molto lontani da poter affermare che i neuroni specchio consentano di spiegare in modo esaustivo l'autismo infantile. Il carattere preliminare di questi risultati, unitamente al notevole polimorfismo clinico caratterizzante la sindrome dello spettro autistico richiedono grande cautela. È tuttavia evidente che si sta aprendo una nuova prospettiva, un nuovo percorso d'indagine scientifica della dimensione autistica che c'induce a considerare l'autismo non più come difetto di un supposto (ma verosimilmente inesistente) modulo della teoria della mente, ma soprattutto come disturbo della consonanza intenzionale, dovuto ad un malfunzionamento e/o ad una sregolazione dei meccanismi di rispecchiamento sostenuti dalla simulazione incarnata (Gallese, 2003, 2006). 
La scoperta dei neuroni specchio genera inoltre interessanti implicazioni per la teoria psicoanalitica e per la pratica psicoterapeutica (vedi: Gallese V. (2006). La molteplicità condivisa. Dai neuroni mirror all'intersoggettività. In S. Mistura (a cura di), Autismo. L'umanità nascosta, Torino, Einaudi, 207-270).

Tratto da:
Gallese, V. (2007). Dai neuroni specchio alla consonanza intenzionale. Rivista Psicoanal., 53:197-208

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