psychology, psychiatry, psychotherapy, psychoanalysis, neuropsychiatry, psychoanalytic training, psychological examination, brain development, psychological development, Sigmund Freud, consciousness, dream, memory, repression, primal scene, transference, pervasive developmental disorders, personality disorders , mind, brain, removal, storage, art and psychology, Psychologie, Psychiatrie, Psychotherapie, Psychoanalyse, Neuropsychiatrie, psychoanalytische Ausbildung, psychologische Untersuchung, die Entwicklung des Gehirns, psychische Entwicklung, Sigmund Freud, Bewusstsein, Traum, Erinnerung, Verdrängung, Urszenen, Übertragung, tiefgreifende Entwicklungsstörungen Störungen, Persönlichkeitsstörungen, Geist, Gehirn, Entfernung , Lagerung, Kunst und Psychologie, психоанализ, психология, психотерапия, психиатрия, нейропсихиатрия, психоаналитическая подготовка, психологическая экспертиза, развитие мозга, психологическом развитии, Зигмунд Фрейд, сознания, сон, память, репрессии, первичная сцена, перенос, расстройства развития, расстройства личности , ум, мозг, удаления, хранения, искусства и психологии, 精神分析学、心理学、心理療法、精神医学、神経精神医学、精神分析の訓練、心理検査、脳の発達、心理的な開発、ジークムント·フロイト、意識、夢、記憶、抑圧、プライマルシーン、移動、広汎性発達障害、人格障害、心、脳、除去、貯蔵、芸術、心理学


IPA AIPsi SINPIA SPI SIP

Psicoanalisi - Psicoterapia

Edward Bibring nel 1954 individua 5 tipi di psicoterapia: suggestiva, abreativa, manipolativa, chiarificatrice e interpretativa (con manipolativa intende la psicoterapia nella quale il medico partecipa cercando di dare un'immagine che seva da modello di identificazione).
Quel che diferenzia la psicoanalisi dalle psicoterapie in generale è che queste utilizzano la suggestione, l'abreazione e la manipolazione come strumenti terapeutici, mentre in psicoanalisi gli unici strumenti ritenuti terapeutici sono la chiarificazione e l'interpretazione.

Quando parliamo qui di psicoterapia intendiamo riferci a quella modalità di intervento denominata usualmente psicoterapia psicoanalitica e non alle altre metodologie su base psicologica .
Se una persona di un certo livello culturale apprendesse alla perfezione, leggendo i vari testi disponibili, la teoria e la tecnica psicoanalitica e la applicasse correttamente su pazienti, che tipo di operazione farebbe? Potremmo certamente dire che questa persona, incontrando un altro essere umano che chiede il suo aiuto, intraprenderà un “rapporto” psicologico. Questo sarà però disturbato dalle conoscenze tecniche acquisite che verranno inconsapevolmente utilizzate per evitare di entrare veramente nel “rapporto”. Tenderà cioè ad usare le sue cognizioni come una difesa intellettuale che agirà da barriera fra sé e l'altro onde evitare coinvolgimenti difficilmente controllabili. Egli eviterà di “lasciarsi andare” al rapporto, proprio perché gli mancheranno gli strumenti di consapevolezza che l'analisi personale permette di acquisire e che consentono di lavorare sul proprio controtransfert. L'apprendimento teorico e tecnico della psicoanalisi non fanno lo psicoanalista né consentono l'applicazione terapeutica di questa disciplina perché occorre prima sperimentare su se stessi l'evento paradossale di lavorare, mediante la coscienza, su livelli inconsci. Ciò infatti presuppone una sufficiente conoscenza del proprio mondo interno che permette di vivere “consapevolmente” quel “rapporto” il quale altrimenti, pur essendo apparentemente corretto, nella migliore delle ipotesi è paragonabile ad un viaggio guidato da un pilota sapiente ma cieco.
Questa premessa può apparire banale, ed infatti lo è, ma è l'unica possibile per poter affermare che non si può parlare di psicoterapia psicoanalitica senza partire dal presupposto tassativo che essa può essere praticata solo da chi abbia compiuto una sufficiente esperienza di analisi personale. Pertanto la psicoterapia psicoanalitica non può definirsi tale se non è praticata da chi abbia effettuato una analisi personale.
Questi concetti sono impliciti nelle seguenti definizioni che della psicoterapia psicoanalitica danno Rycroft e Laplanche e Pontalis nei loro Dizionari di Psicoanalisi:
Dicono Laplanche e Pontalis: “Col nome di “psicoterapia analitica” si intende una forma di psicoterapia che si basa sui principi teorici e tecnici della psicoanalisi, senza tuttavia realizzare le condizioni di una cura psicoanalitica rigorosa”.
E Rycroft: “Uno psicoterapeuta orientato psicoanaliticamente è una persona che intende usare le teorie e le tecniche psicoanalitiche senza avanzare alcuna pretesa di essere stato formato in un Istituto psicoanalitico”.
L'analisi personale, adeguate supervisioni ed una buona preparazione teorica costituiscono la base comune di qualsiasi analista, sia che questo iter venga svolto in un Istituto psicoanalitico con un training istituzionalizzato, sia al di fuori dell'istituzione psicoanalitica, anche se ciò, come vedremo, comporta dei rischi.
Questa base comune non rende tuttavia identici i due tipi di formazione così come un'ampia esperienza di supervisione mi ha consentito di osservare.
Fuori dalle Istituzioni psicoanalitiche si formano, fatte le debite eccezioni, degli psicoterapeuti con delle difese di struttura che non consentono loro di approfondire il rapporto. Difese che io ritengo salutari sia per il terapeuta che per il paziente. Ciò tuttavia non giustifica una netta linea di demarcazione fra la psicoterapia psicoanalitica e la psicoanalisi, adoperando il criterio esterno di un “contratto” e di un “setting” predeterminanti per cui, ad esempio, lo “status simbol” del lettino farebbe definire il trattamento una analisi e il “vis à vis” una psicoterapia.
Il setting analitico, così come ci è stato tramandato e così come viene applicato oggi dalla generalità degli analisti di tutto il mondo, ha una sua ragione di essere. Esso è frutto di lunghissime esperienze che hanno permesso di capire come i suoi aspetti tecnici consentano un rapporto che si svolge a livelli la cui profondità è quella che la regressione dell'analizzando permette di raggiungere. Tutto il setting tende a favorire la regressione, tanto che ogni sua trasformazione potrebbe modificare le possibilità di regressione. Ne consegue che il lettino, le numerose sedute ravvicinate, l'esclusione totale della realtà esterna del paziente, la neutralità dell'analista che non si pone come oggetto reale, l'interpretazione sistematica del transfert sia nei sogni che nelle associazioni, creano le condizioni tecniche le più favorevoli per indurre una profonda regressione con tutte le conseguenze che questo comporta. Se a questo aggiungiamo l'analisi del controtransfert e l'autoanalisi che ogni analista compie verificandola ogni giorno nel contatto con le problematiche dei suoi pazienti, possiamo definire quanto sopra descritto come lo svolgimento di un trattamento psicoanalitico classico. Ne dovrebbe conseguire che chiunque modifichi una o più delle variabili sopradette non farebbe “psicoanalisi” ma qualche cosa d'altro che per comodità usiamo chiamare “psicoterapia psicoanalitica”.
Io credo però che questa valutazione non tiene conto che il rapporto che si determina nella coppia analista-analizzando è molto più complesso ed obbedisce a delle dinamiche interne proprie della coppia che smentiscono la cosiddetta “neutralità” dell'analista. Salvo che, non si confonda la neutralità con la regola dell'astinenza e solo per questo si consideri il rapporto della coppia analitica come veramente asettico.
Nel momento del primo incontro dell'analista con l'analizzando, quando cioè questi due esseri umani debbono decidere se possono e debbono fare insieme un pezzo di strada della loro vita, certamente avvengono alleanze e collusioni conscie e inconscie che peseranno non certo asetticamente, sulla decisione. E questa scelta, come ben sappiamo, avviene prescindendo da qualunque altra considerazione.
Basti pensare alle scelte che ogni analista fa, che solo apparentemente sono guidate da parametri teorici tendenti ad etichettare i pazienti; ciascuno di noi infatti prende in trattamento quel certo paziente ed adopera tecniche a volte atipiche: sarebbe interessante ad esempio capire perché in certi momenti del nostro iter professionale abbiamo in trattamento più donne che uomini, più adolescenti che adulti, più psicotici che nevrotici; oppure perché alcuni di noi si dedicano ai gruppi o prevalentemente ai bambini.
Nell'introduzione al Panel sulla “formazione della coppia”, presentato al Congresso di Taormina, ho scritto: “Osservare un processo analitico come qualcosa che riguarda la coppia e non il solo paziente, o, nel migliore dei casi il paziente da un lato e l'analista dall'altro, modifica sostanzialmente l'ottica usuale.
Concetti come diagnosi, prognosi, indicazioni e controindicazioni, analizzabilità e cura, visti nell'ottica del rapporto di coppia hanno perduto la loro consueta significatività. Tanto più che la aspecificità della tecnica psicoanalitica nei confronti del sintomo non ne è affatto condizionata.
Tali concetti hanno cominciato ad essere considerati come vere e proprie difese professionali dell'analista, direttamente influenzate dall'economia interna del paziente e quindi dalla disponibilità della coppia a raggiungere determinati livelli di regressione, e quindi di profondità” — Dice Winnicott: “L'analisi è per coloro che la desiderano, ne hanno bisogno e sappiano sopportarla. In caso contrario, mi trasformo in psicoanalista che risponde alle esigenze di quel caso particolare o tenta di farlo. Il lavoro più difficile, quello che non corrisponde alla tecnica psicoanalitica standard, è il lavoro di un analista che abbia già dietro a sé una certa esperienza “classica” e davanti a sé la capacità permanente di re-inventarsi”.
La situazione analitica, quale si può ricavare dall'opera di Winnicott, è la dinamica di una relazione (quella dell'analista con il paziente) e la comune creazione di uno spazio all'interno del quale si iscrivono i meccanismi più primitivi d'amore, di odio, di introiezione, di proiezione, di rappresaglie, di disintegrazione. E questo può avvenire in quanto c'è, in partenza, un “adattamento dell'analista alla angoscia del paziente. A partire da codici minimi di sicurezza, si istituisce un quadro capace di contenere le angosce più arcaiche e si svolge, in libertà, il processo analitico, processo nel quale trova posto la partecipazione inconscia dell'analista.
D'altra parte è anche certo che l'inconscio di ogni persona che chiede una analisi sa già (basta pensare ai sogni d'inizio d'analisi) quale cammino è in grado di compiere utilizzando per tale fine la disponibilità dell'analista.
Ed è a questo punto che, a mio modo di vedere, è possibile forse capire se il lavoro che si comincia sarà una “vera analisi cosiddetta ortodossa” oppure una psicoterapia psicoanalitica, oppure una psicoterapia durante la quale ci saranno momenti di analisi. E' qui che emerge un criterio discriminante: è un criterio interno e potrebbe definirsi come “le aspettative della coppia analista-analizzando”. Sono queste che, conscie e inconscie, causa e frutto dell'incontro e della formazione della coppia, determineranno il “patto” che costituirà il setting interno ed esterno della terapia.
Quanto più tali aspettative si rivolgeranno ai sintomi o all'adattamento alla realtà o al mondo esterno dell'analizzando o ai contenuti del materiale che l'analizzando porta, tanto più ci si allontanerà da quei processi mutativi che l'analisi tende a raggiungere senza alcuna finalizzazione evidente.
Jones, nel suo lavoro “I criteri del successo nella cura” (1936), distingue i risultati “terapeutici” da quelli “analitici”. Parlando dei primi egli osserva come il paziente dia un significato quasi mistico al sintomo principale per cui si era originariamente rivolto all'analista e di come esso viene preso come terreno di scontro tra paziente e analista, un banco di prova della lotta fra resistenza e analisi.
Il successo analitico, invece, egli dice, va completamente al di là del campo patologico e comprende anche le linee evolutive di tutti gli interessi principali della vita del soggetto.
Risulterà allora che la psicoterapia psicoanalitica potrà apparire molto più “curativa” di un trattamento analitico, proprio perché oltre a consentire un deflusso dell'angoscia di superficie permetterà il soddisfacimento delle aspettative insite nel primo incontro e nella formazione della coppia.
Dai candidati degli istituti psicoanalitici si pretendono alcune impostazioni che consentano di far loro apprendere nel modo più corretto possibile la tecnica psicoanalitica cosiddetta classica. Viene preteso  che i “casi” da supervisionare consentano l'applicazione delle tecniche ortodosse.
Poniamo ora attenzione a ciò che accade quando ci chiede una supervisione uno psicoterapeuta che ha acquisito una formazione analitica fuori dai nostri Istituti e che opera sul “campo” in Istituzioni Pubbliche o privatamente nel proprio studio.
L'esperienza di supervisioni di psicoterapeuti ha confermato che l'errore più comune che viene commesso è nel come “si assumono” i pazienti e cioè nel primo incontro e nel successivo contratto. Eppure tali psicoterapeuti sono persone analizzate che, attraverso la propria esperienza analitica, anche se solo “limitata”, dovrebbero e potrebbero ovviare certi errori banali. L'esperienza ha permesso di capire che le distorsioni erano inconsciamente volute dalla coppia che, difensivamente e quindi collusivamente, sceglieva di mantenere il rapporto a livelli non molto profondi, quasi sempre tendenti a rafforzare certe difese. L'atteggiamento più frequente fra gli psicoterapeuti è quello di “aspettarsi qualcosa dal paziente”, di poter prevedere “come andrà a finire il trattamento”, la preoccupazione di “dare qualcosa al paziente” con una forte tendenza a rassicurare e notevole allarme di fronte agli attacchi aggressivi o alle angosce del paziente unite alla costante paura di perderlo. Si evidenzia cioè una scarsa disponibilità ad accettare la regressione del paziente, il quale, non a caso, ha scelto quello psicoterapeuta che gli garantisce in definitiva di non angosciarsi troppo e di evitare il contatto con le parti più profonde del proprio inconscio.
Quindi gli errori sono solo l'espressione delle difese del terapeuta. Ciò potrebbe anche far comprendere come il lavorare nelle Istituzioni, dove un trattamento analitico classico è impensabile, può voler dire, a mio avviso, utilizzare l'Istituzione come una realtà che giustifica e obbliga a mettere in opera resistenze e difese contro l'approfondimento del rapporto.
D'altra parte è esperienza comune nei candidati la frequente possibilità di perdere i propri pazienti. Ogni didatta potrebbe testimoniare ciò con ampia casistica. E anche l'osservazione che spesso i pazienti dei candidati “vanno meglio”, è da riferirsi alla maggiore terapeuticità del funzionamento della coppia legata molto di più alle aspettative di guarigione.
Il concetto di “spontaneità” dell'analista per me ha lo stesso significato da attribuire al concertista che diventa tale solo quando ha tanto assorbito la tecnica strumentale da poterla dimenticare perché sarà interessato soltanto a “fare la musica”. È quello che nel nostro campo può significare conoscere tanto bene il mestiere di analista da poterlo dimenticare per poter essere analista anziché fare
l'analista.
Mi rendo conto che ciò che ho detto può turbare gli amanti delle regole: quelle regole che i candidati, all'inizio del loro iter, ci chiedono ripetutamente, e che non venogno ovviamente mai date. La tecnica psicoanalitica infatti si fonda sul principio inderogabile della “regola aurea”. Cioè la “regola” della “non regola”., fuori da questa “regola” non c'è psicoanalisi.
E' così possibile considerare il “patto” che definisce il “setting” come il fattore differenziante fra trattamento psicoanalitico e psicoterapia psicoanalitica. Tale patto o, come si usa dire “contratto”, non è definito da un criterio esterno deciso sulla base di schemi precostituiti, ma come risultato di una dinamica che si sviluppa all'interno della coppia terapeutica fin dal primo incontro che si manifesterà poi con la costituzione del setting. Il setting ovviamente non deve essere definito in termini contraddittori: è impensabile, ad esempio, stabilire di fare una seduta alla settimana facendo sdraiare il paziente sul lettino; e ciò perché mentre distanziare le sedute vuoi dire mantenere il rapporto a livelli meno profondi, il lettino, anziché il vis-à-vis, vuoi significare facilitare la regressione del paziente e quindi consentire l'emergere di materiale più profondo. La consequenzialità della logica del setting deve essere rispettata e non può consentire contraddizioni. Se così non fosse la linea di demarcazione già così sfumata, ma proprio per questo estremamente più delicata, fra trattamento psicoanalitico e psicoterapia psicoanalitica risulterebbe confusa ed equivoca e quindi carica di elementi distruttivi. E nonostante oggi in psicoanalisi ci si occupi più di aggressività che di libido, penso che un rapporto terapeutico è tale solo se in esso prevale la libido.

Bibliografia:
Bellanova, P. (1982). Un criterio di differenziazione fra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica. Rivista Psicoanalisi, 28:15-22;
Manuale di tecnica diR.H.Etchegoyen

Nessun commento:

Posta un commento