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Arte e psicoanalisi

L'interesse dell'estetica per la psicoanalisi
La psicoanalisi riconosce anche nell'esercizio dell'arte un attività che si propone di temperare desideri irrisolti. Le forze motrici dell'arte sono gli stessi conflitti irrisolti che spingono altri individui alla nevrosi e che hanno indotto la società a fondare le sue istituzioni.
L'artista persegue innanzitutto la propria liberazione e, comunicando con la sua opera, la trasmete ad altri che soffrono degli stessi desideri trattenuti. Egli rappresenta come appagate le sue fantasie di desiderio più personali, e queste divengono opera d'arte soltanto se vien loro impressa una forma di versa che mitighi l'aspetto urtante di questi desideri, ne celi l'origine personale, e offra a gli altri, rispettando le regole del bello, seducenti premi di piacere
In quanto realtà ammessa convenzionalmente, in cui grazie all'illusione artistica simboli e formazioni sostitutive possono suscitare autentici affetti, l'arte costituisce un regno intermedio tra la realtà che frustra i desideri e il mondo della fantasiache li appaga, un dominio in cui si direbbe siano rimaste in vigore le aspirazioni all'onnipotenza dell'umanità primitiva.

Bibliografia:
L'interesse per la psicoanalisi da parte delle scienze non psicologiche (1913 -OSF)

Arte e psicoanalisi

Sigmund Freud ricordava come i poeti sanno più di noi. Per Bion i poeti sono i “veri psicoanalisti”, Winnicott si riferisce alla capacità negativa di Keats: ossia la la capacità di un uomo di restare "nell’incertezza, nel mistero, nel dubbio senza l’impazienza di correre dietro ai fatti e alla ragione”.
Lacan sostiene che “le creazioni poetiche generano piuttosto che riflettere le creazioni psicologiche”.
Non è compito della psicoanalisi né di nessun altro, spiegare che cosa l’artista vuol dire con il suo lavoro, neanche l’artista stesso lo sa, e forse è meglio così, ma di soffermarsi su quello che l’opera ci evoca utilizzando i propri strumenti e il nostro personale pensiero. E' ovvio che qualsiasi lettura risente del vissuto emozionale di chi scrive, dei suoi livelli di partecipazione e della sua formazione intellettuale, è necessario sedersi accanto all’artista e alla sua opera nel rispetto della sua esistenza altra rispetto a noi. 
Altra retorica e datata idea è quella che il trattamento analitico inibisca la creatività artistica, pensiero romantico derivato da un’immagine divina e maudit dell’artista, identificando la malattia come presupposto necessario della capacità creativa.
Questo concetto per il Dott. Matteo De Simone è falso, nel senso che la creatività non si sviluppa esclusivamente dal bisogno di ricreare l’oggetto perduto, spesso consiste invece nel creare qualcosa di nuovo nel mondo che già esisteva ma che non aveva ancora un nome.
L’opera d’arte rivela quello che non sapevamo del mondo, dice la Milner:
Nel processo creativo si annulla la distinzione tra soggetto e oggetto, tra interno ed esterno, quindi la creatività si situa nell’oscillazione tra un’attività mentale di superficie e il contenuto indefinito e non differenziato. Non è, dunque, solo il “sentimento oceanico” freudiano in cui c’è fusione tra il sé e l’altro, come il bambino nelle braccia della madre, ma è tramite l’oscillazione che si attiva la creatività.
L’atto creativo per svilupparsi deve attraversare un vuoto, allontanarsi da preconcezioni per accettare ciò che emerge dal profondo, ripristinando la fusionalità originaria ma senza rimanere imprigionati dentro. E’ come entrare in uno spazio vuoto dentro di sé, ove può nascere ogni cosa nuova, una sorta di utero, l’inizio di una trasformazione per poi poter accedere a processi d’integrazione. E' dunque un atto che presuppone la capacità di regredire ad un funzionamento primitivo e meno integrato. La creativa potrebbe bloccarsi quando diviene impossibile all'artista il concerdersi di muoversi fluidamente da uno stato di maggiore ad uno di minore integrazione, poiché lo stato meno integrato potrebbe smuovere quantità di angoscia non tollerabili. In questo senso l'analisi può divenire l'utile strumento per riacquistare la propria possiblità di vivere creativamente e dunque di poter riprendere anche una attività artistica che sia sentita come viva e significativa per l'autore.

Liberamente tratto da:
"Bellezza e tristezza nella poesia di Sandro Penna" di Matteo De Simone

1899: esplorazioni dell'inconscio tra psicoanalisi e arte


La data di pubblicazione della Traumdeutung assume nella storia dello sviluppo del pensiero psicoanalitico un significato di pietra miliare. Inoltre il carico di significato personale che quest'opera ha per Freud, si sposa perfettamente con l'intenzione di indirizzare la riflessione sui moventi che spingono gli uomini a guardare nelle più remote profondità di loro stessi. Moventi che sono sostenuti da una fondamentale sofferenza, per curare la quale la curiosità e il desiderio di crescere riescono a sopraffare la naturale ritrosia e l'evitamento della fatica per affrontare gli inquietanti meandri del proprio mondo interno.
Ogni manifestazione dell'espressività umana, in qualsiasi forma si manifesti, dalla più privata e condivisa solo con se stessi, per esempio nel sogno, a quella pubblica e socializzata, comprese quindi le produzioni scientifiche e artistiche, risponde a questo bisogno intimo di dare una forma all'esperienza interna di sconcerto e di sofferenza per la rottura di un equilibrio. «Anche il più semplice, più piccolo uomo, quando ha la sua nevrosi segnala a se stesso un conflitto: è tempo di andare, è tempo di pensare. La psicoanalisi può essere considerata come l'attività e lo strumento capace di raccogliere ed ampliare il debole segnale e consentire a quest'uomo di dirsi e sviluppare il suo “no”, trovando la libertà dentro di sé» (Di Chiara, 1985, 268). 

La spinta a esplorare, e quindi «nominare» e rappresentare il proprio inconscio, significa trarre l'altro, l'alieno, all'interno della propria competenza psichica. Il pensiero freudiano in questo senso non rappresenta che una tappa, fulgida sicuramente, ma assolutamente inscritta in un movimento che credo si possa iconograficamente identificare nell'immagine di Pinel che libera dalle loro catene i «matti» della Salpetrière. Atto che ha dato l'avvio, nella prospettiva della storia del pensiero psichiatrico, ad un percorso che, pur nelle differenze delle diverse epoche e delle diverse scuole di pensiero, non ha mai cessato di guidare l'operare psichiatrico. Lo sforzo della psichiatria francese post-rivoluzionaria, fino all'800, di individuare «sindromi», così come l'impresa di Kraepelin nella direzione della identificazione dell'entità nosografica, o la grande sistematizzazione di Jaspers della psicopatologia, tendono a sottrarre l'estraneo alla coscienza «sana» all'ambito del magico, del malefico, del non umano. Tendono a dare un significato di qualche tipo alla disturbante estraneità dello «psicopatologico», a non lasciarlo vagare come un personaggio senza volto e senza senso. L'opera di Freud in questo senso rappresenta il culmine di tale operazione di conquista al senso e al pensiero dell'estraneo. Rappresenta, citando ancora Di Chiara (1985), un'esplicitazione della «funzione psicoanalitica della mente», che peraltro non viene a riguardare unicamente l'ambito «psi», ma si può rintracciare anche nello sviluppo del pensiero filosofico e, ancor di più, nell'ambito artistico. Così negli anni intorno alla fine del 1800 e l'inizio del 1900 il clima culturale era saturo di questa più o meno consapevole curiosità nei confronti dell'estraneo in noi.
«Questo libro [L'interpretazione dei sogni] ha infatti per me anche un […] significato soggettivo, che mi è riuscito chiaro solo dopo averlo portato a termine. Esso mi è apparso come un brano della mia autobiografia, come la reazione alla morte di mio padre, dunque all'avvenimento più importante, alla perdita più straziante nella vita di un uomo» (Freud, 1899, 5).
L'opera fondamentale che si può porre come pietra angolare dell'edificio psicoanalitico nasce, nel 1899, come reazione ad una perdita, «alla perdita più straziante nella vita di un uomo».
Il vuoto che l'oggetto lascia nel mondo sembra solo un'eco di una perdita più vasta e profonda che si produce all'interno della mente di chi questa perdita subisce, come la produzione di una «perdita di sostanza» che richiede un'attività intensa per poter ricostituire questa sostanza perduta. Prima di elaborare la riflessione su lutto e melanconia, Freud attua questo lavoro, indirizzando, genialmente, tutte le sue risorse ad un'esplorazione dei propri spazi interni, attraverso «la via regia» del sogno.
In una lettera a Fliess, per ringraziarlo delle condoglianze, scrive: «La morte di mio padre mi ha colpito profondamente per una delle oscure vie che sono al di là della coscienza ufficiale […] quando è morto aveva fatto il suo tempo, ma la sua morte ha risvegliato in me tutti i miei antichi sentimenti. Ora mi sento completamente sradicato» (cit. da Jones, 1953, 391).

La capacità di creare, e la possibilità di riparare tutto ciò che nel procedere dell'esperienza assume il carattere traumatico di una concretizzazione di queste evenienze fondamentali, diviene il motore che ci seduce verso l'esplorazione dello sconosciuto; l'incombenza della sconfitta e dello scacco del senso ciò che ci terrorizza: il tramonto della ragione.
Edvard Munch
Ragazze sul ponte
Olio su tela
Museo Puskin - Mosca


La distinzione tra mondo interno e mondo esterno sembra raffigurata da un dipinto, Le ragazze sul ponte, che Edvard Munch realizza nel 1899.
La vicenda di Munch è particolarmente indicata ad un'esplorazione tesa all'evidenziazione della relazione tra vicende personali e creatività artistica. Egli pone come centro della propria produzione i fatti fondamentali della propria vita. La sua vicenda infantile ruota intorno alla morte della madre, a causa della tubercolosi, quando egli aveva cinque anni. Edvard era il secondo di cinque fratelli. La sorella maggiore di un anno, Sophie, morì di tubercolosi a quindici anni. La sorella minore, Laura, divenne, nella prima adolescenza, psicotica. Il fratello Andreas, il penultimo figlio, morì a ventisei anni di polmonite. Il padre soffriva di una situazione ciclotimica. L'ultima sorella, Inger, rimane tutta la vita accanto ad Edvard, che mai riuscirà a formarsi una famiglia, terrorizzato dall'incombere della malattia e della follia su di lui.
Nella produzione pittorica di Munch, una vocazione che ha conservato come un'eredità materna, gli eventi traumatici della sua vita vengono rappresentati con una cronologia che rispetta un andamento che dall'ultimo evento va verso il primo, dal meno drammatico a quello irreparabile. La bambina malata (Chiappini, 1998, 70; www.edvard-munch.com/gallery/death/index.htm), raffigurazione della malattia della sorella Sophie, è datato 1885, nella sua prima versione; Morte nella camera di un'ammalata (Chiappini, 1998, 73,  www.edvard-munch.com/gallery/death/index.htm), la scena della morte della sorella è del 1893 (ci sono voluti otto anni per passare dalla malattia alla raffigurazione della morte); La madre morta e la bambina (Cfr. Bishoff, 1994, 57; www.edvard-munch.com/gallery/death/index.htm), che si riferisce alla morte della madre del 1899.
Un andamento a ritroso che indica come il lavoro artistico rappresenti per lui il tentativo di recuperare allo spazio della pensabilità «i vuoti di senso che dall'anima si trasmettono alla mente e la lasciano esausta per la perdita di significato delle persone e delle cose [che] costituiscono […] il modo di Munch di rappresentare la proibizione di essere» (Magherini, 1998).
Recuperare le memorie tende a liberarle dalla persecutorietà che contengono: nuclei di esperienza allo stato puro, pensieri senza pensatore, possono divenire la fonte interna della creatività, frammenti di vita di cui dolorosamente riappropriarsi, attraverso un lavoro che permetta all'Io di non restare soverchiato dalla perdita rappresentata dalla mancata simbolizzazione delle «più piccole cose» che non ci sono più.
Nella mente di Munch queste immagini sono rimaste come sospese nel tempo. Vi è un tempo oggettivo, lineare, che scorre inesorabilmente, ed un tempo interno, bloccato. È il tempo del ricordo racchiuso in una prospettiva chiusa e ricorsiva, in cui il passato non può essere tale, ma è sempre, persecutoriamente, presente.
Come Freud ha asserito nell'inconscio non troviamo traccia di una concezione del tempo. Il tempo è una dolorosa acquisizione della consapevolezza di sé. Attraverso un confronto sempre turbolento tra il tempo lineare oggettivo, ed i tempi interni, bloccati o oscillatoriamente mobili. Sembra tuttavia che in Munch questa rappresentazione di un tempo interno fermo su questi eventi si possa anche discostare dall'idea di una vera e propria paralisi, come potrebbe essere quella del tempo melanconico che «sembra congelato in un momento che dura per sempre, come la morte stessa» (Birksteed-Breen, 2004, 1505), o come nelle manovre ossessive di negazione del tempo descritte da Fachinelli (1992). Se da un lato non è negato il tempo lineare oggettivo, dall'altro la temporalità oscillatoria interna sembra riaperta, in un andare dal presente al passato, per rendere pensabile ed elaborare l'esperienza emotiva, nell'allora intollerabile. È questa la nachträglichkeit freudiana, che permette (Baranger W. e M., 1987) l'elaborazione del trauma che qui forse proprio attraverso la mediazione artistica «dà forma concettuale e verbale - in questo caso figurativa - a ciò che si manifestava come inammissibile e incomprensibile» (179). Penso in particolare a come l'espressione artistica possa fungere da mente altra, la mente materna che tiene al proprio interno le angosce del bambino il tempo necessario per renderle tollerabili. È questa la matrice di un tempo soggettivo, interno, non paralizzato.
Il lutto legato alla perdita della madre, rappresenta, nell'età in cui Munch l'ha patito, un'esperienza che si pone ai limiti della possibilità di concepire una elaborazione per una mente ancora così bisognosa di un supporto. Sarebbe proprio della madre, della sua capacità di consolare e dare conforto che il bambino di fronte ad un carico di emozioni così grande avrebbe bisogno; ma è proprio questa che viene a mancare. La possibilità di avere dentro di sé un oggetto interno materno sufficientemente solido appare, in un'età così precoce, e con le vicende familiari specifiche di Munch, profondamente problematica. L'ambiente familiare è chiuso su di sé e sul proprio dolore e viene a configurare un ambiente «madre-morta» nell'accezione di Green (1980): l'evento trasforma «l'oggetto vivente, sorgente della vitalità del bambino, in una figura lontana, atona, quasi inanimata» (265).
Tre ragazze, tutte rivolte verso la stessa direzione, osservano il paesaggio che si riflette nell'acqua. In questo riflesso esiste un particolare che è balzato all'attenzione di tutti, cioè che accanto al grande albero, manca la luna. Ma in realtà vi è un'altra caratteristica che può far pensare ad una sorta di lapsus pittorico: la casa che si riflette è diversa, reciproca, rispetto a quella reale. La parte più bassa del tetto diviene nel riflesso quella più alta e viceversa; compare una finestra in più nel riflesso che non esiste nella «realtà».
Ciò che le ragazze vanno osservando è lo spazio interno della mente, popolato dagli oggetti della storia che possono declinarsi secondo due registri: da un lato vi è lo spazio dei ricordi, dove gli oggetti vengono conservati anche nelle loro relazioni. In particolare sembra che la luna, l'albero e la casa, nello spazio «reale» configurino una relazione tra padre e madre che crea lo spazio della familiarità. È questo quindi lo spazio del ricordo, della relazionalità e della creatività. Nel riflesso viceversa si configura lo spazio del «trauma», della perdita dell'oggetto. In questo spazio campeggia l'assenza, il luogo dove non è più l'oggetto. Solo nel momento in cui è possibile rappresentarsi la morte della madre, e la situazione emotiva che si realizzò nel mondo interno, che può riorganizzare, attraverso l'elaborazione del lutto, il proprio spazio interno, in cui l'esperienza della perdita e quella del ricordo possono affiancarsi in una realtà interna vitale.
L'elaborazione del lutto tuttavia non toglie la perdita: se nella realtà la vita può riprendere il suo corso in una relativa tranquillità, nel profondo dell'anima i vuoti restano, anche se la riparazione può addirittura creare qualcosa in più rispetto al reale. Come osserva F. Meotti (1998): «nel momento stesso in cui procede alla
riparazione dell'oggetto […] [il soggetto] crea di fatto un oggetto nuovo, ma, soprattutto, crea la propria creatività […] [la riparazione] appare come un processo molto complesso in cui […] è necessario che l'esperienza vitale e sempre più importante del presente rafforzi la coesione e il peso che il sé dà a se stesso, in modo tale da variare il tono affettivo della memoria senza adulterarne il significato» (150). In questo senso, tornando a Ragazze sul ponte, si può pensare sia la realtà soprastante ad essere un riflesso di quella sottostante, uno spazio in cui il sé ha potuto «variare il tono affettivo della memoria», attingendo comunque a primitive esperienze legate alla presenza viva e vivificante della madre.

Tratto da:
Trabucco, L. (2007). 1899: esplorazioni dell'inconscio tra psicoanalisi e arte. Rivista Psicoanal., 53:673-696

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