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IPA AIPsi SINPIA SPI SIP

Aprés-coup e avant-coup

La terapia psicoanalitica mira a sviluppare la capacità di vivere. Una modalità di vivere che si basa sulla compiacenza è la conseguenza di un fallimento dell'indipendenza.

Tutti abbiamo un modo di essere che diamo per scontato, vivere creativamente vuole dire di conformarsi a questa modalità in modo automatico.
Vivere creativamente vuole dire essre pronti al perturbante.
Continuare ad evolversi significa essere indipendenti anche da ciò che si è stati.
Un aseptto essenziale dell'essere creativamente vivi è arricchire il momento presente con un articolazione sempre nuova dell'esperienza passata. 
L'altro aspetto è vivificare il presente mediante una riconfigurazione inconscia continua della propria disponibilità nei confronti del futuro.

Liberamente tratto da:
Michael Parsons "aprés-coup e avant-coup: la morte e la scena primaria"

Lo psicoanalista è uno psicoterapeuta. Il colloquio se assume valenze terapeutiche è equiparabile ad un atto medico

E' utile sapere che drammaticamente non esiste un albo degli psicoanalisti, ciò rischia di consentire a chiunque di fregiarsi di tale titolo senza avere alcun requisito, nonostante i veri psicoanalisti dell'IPA (Associazione Internazionale di Psicoanalisi) siano attualmente gli psicoterapeuti che si sono sottoposti al training formativo più impegnativo e completo attualmente esistente in questo ambito professionale (vedi: differenze tra psicoanalista, psicoterapeuta, ..).
Esiste però una sentenza della Cassazione Penale (Sez. VI, Sent. n. 14408 del 11.04.2011) per la quale la pratica della psicoanalisi viene equiparata alla psicoterapia e richiede quindi regolare iscrizione all’Albo degli Psicoterapeuti. Ovviamente gli psicoanalisti dell'Ipa sia dell'AIPsi e che della SPI sono necessariamente iscritti in Italia nella lista degli Psicoterapeuti dell'Ordine degli Psicologi o dei Medici.
L'assenza di un Albo degli psicoanalisti permette zone franche di potenziale abuso della professione da parte di impostori.
Nel 2008 l’Ordine Psicologi Emilia Romagna denunciò per abuso una persona per pratica abusiva della professione di psicologo e psicoterapeuta. In un primo momento il Tribunale di Ravenna assolse la persona, successivamente – nel 2010 – la Corte di Appello di Bologna dichiarò invece l’imputata colpevole del reato ascrittole.
La persona decise di ricorrere quindi in Cassazione affermando in sintesi che la psicoanalisi non ha nulla a che fare con psicologia o psicoterapia, e che quindi non ha motivo di sussistere nessun reato. Ed è proprio su questo ultimo passaggio che la Cassazione si esprime:
ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 348 c.p., l’esercizio della attività di psicoterapeuta è subordinato ad una specifica formazione professionale della durata almeno quadriennale ed all’inserimento negli albi degli psicologi o dei medici (all’interno dei quali è dedicato un settore speciale per gli psicoterapeuti). Ciò posto, la psicanalisi, quale quella riferibile alla condotta della ricorrente, è pur sempre una psicoterapia che si distingue dalle altre per i metodi usati per rimuovere disturbi mentali, emotivi e comportamentali.”
Ed ancora:
Nè può ritenersi che il metodo “del colloquio” non rientri in una vera e propria forma di terapia, tipico atto della professione medica, di guisa che non v’è dubbio che tale metodica, collegata funzionalmente alla cennata psicoanalisi, rappresenti un’attività diretta alla guarigione da vere e proprie malattie (ad es. l’anoressia) il che la inquadra nella professione medica”.

Quindi non solo la psicanalisi è necessariamente una psicoterapia dal punto di vista giuridico, ma anche il “colloquio” può rientrare in una vera e propria forma di terapia che, se declinata e diretta alla guarigione, è da inquadrarsi nell’ambito regolamentato da legge.

In conseguenza di questa sentenza pare dunque che ove si ravvisi attività terapeutica svolta da soggetti che si propongono come psicoanalisti, ma sprovvisti di regolare iscrizione all’Albo Psicoterapeuti, sarebbe possibile effettuare una segnalazione al proprio Ordine regionale per abuso di professione, allegando la citata sentenza della Cassazione.
È ulteriormente importante in quanto sentenzia su una dinamica molto simile a quella che avviene con il counseling ed i counselor e tutte queste professioni affini che spesso possono venire esercitate dopo brevi e sommari corsi da persone, talvolta anche in ottima buona fede, ma senza  reali conoscenze, se non superficiali, in campo psicologico o medico.
Di fatto – ad oggi – se non sei psicologo non puoi dire di fare “counseling psicologico”, ma se parli esclusivamente di “counseling” aggiri il problema. Servirebbe dunque una giurisprudenza che riconduca il termine “counseling” alla professione di Psicoterapeuta e probabilmente anche un Albo degli psicoanalisti afferenti all'IPA sarebbe necessario per fare almeno un minimo di chiarezza.

Ambivalenza

Il termine Ambivalenz è stato coniato da Bleuler, dal quale Freud l'ha mutuato. Bleuler considera l'ambivalenza un sintomo fondamentale della schizofrenia, ma ammete l'esistenza di un'ambivalenza normale. Nell'ambivalenza vi è il mantenimento di una opposizione del tipo sì-no, in cui l'affermazione e la negazione sono simultanee e indissociabili.
Il termie compare in Freud per la prima volta in Dinamica della traslazione (Zur Dynamik der Ubertragung, 1912), per spiegare il fenomeno del transfert negativo. Ma l'idea di una congiunzione dell'ampore e dell'odio compare già prima, per esempio nel'analisi del Piccolo Hans e dell'Uomo dei topi. 
L'ambivalenza può essere messa in evidenza soprattutto in certe affezioni (psicosi, nevrosi ossessiva) e in certi stati (gelosia, lutto). Freud in LUtto e melancolia conclude affermando che il problema non è la perdita dell'oggetto ma l'ambivalenza. L'ambivalenza caratterizza alcune fasi dell'evoluzione libidica in cui esistono amore e distruzione dell'oggetto (fasi sadico-orale e sadico-anale). 
In questo senso essa diventa in Abrham una categoria genetica, che consente di specificare la relazione ogettuale propria di ciascuna fase. La fase orale primaria è qualificata come preambivalente: "La suzione è un atto di incorporazione, con il quale però l'esistenza della persona che nutre non è soppressa". Per questo autore, l'ambivalenza compare solo con l'oralità sadica, cannibalesca, che implica un'ostilità verso l'oggetto; l'individuo impara poi a risparmiare il suo ogetto, a salvarlo dala distruzione. L'ambivalenza può essere superata allo stadio genitale (post ambivalente).
Nei lavori di Melanie Klein, che si rocollegano a quelli di Abrham, il concetto di ambivalenza è essenziale. Per la Klein la pulsione è senz'altro ambivalente: l'amore dell'oggetto stesso non si separa dalla sua distruzione; l'ambivalenza diventa una qualità dell'oggetto stesso contro la quale il sogetto lotta scindendolo in "oggetto buono" e "oggetto cattivo". Un oggetto mbivalente che sia al tempo stesso idealmente benefico e fadoamentalmente distruttore non può essere tollerato.
Freud alla fine della sua opera tende ad accrescere l'importanza dell'ambivalenza nel trattamento e nella teoria del conflitto. Il conflitto edipico, nelle sue radici pulsionali, è concepito come un conflitto di ambivalenza e una delle sue dimensioni principali è l'opposizione tra "...amore ben fondato e odio non meno giustificato, entrambi rivolti verso la stessa persona". In questa prospettiva la formazione dei sintomi nevrotici è concepita come il tentativo di approtare una soluzione a tale conflitto: la fobia per sempio sposta uno dei due componenti, l'odio, verso un ogetto sostitutivo; la nevrosi ossessiva tenta di rimuovere l'impulso ostile rafforzando il moto libidico sotto forma di formazione reattiva.

L'ambivalenza è qualcosa di più profondo di una "complessità di sentimenti", di "fluttuazioni nell'atteggiemento" o di "sentimenti misti", e va al di là dell'oggetto. L'oggetto non influenza l'ambivalenza, questa può essere l'espressione di una caratteristica strutturale dell'individuo dove gli opposti possono coesistere senza confluttualità. L'ambivalenza è essenzialmente qualcosa di inconscio. Per l'albivalente tutto va male, il sogetto nel suo sentimento profondo non riesce ad avere sentimenti misti ma nutre impulsi opposti: "ti amo e ti uccido", "ti accetto e ti rifiuto". Il paziente ambivalente non si da pace e si consuma. Lunghi fidanzamenti possono essere legati all'ambivalenza. Il problema è chiedersi se il soggetto è capace di amare. "Amor, ch'a nullo amato amar perdona" (verso 103 canto V dell'Inferno): 
"L'amore, che a nessuno perdona, se amato, di riamare" "L'Amore, che obbliga chi è amato ad amare a sua volta". Per essere capace di amare senza ambivalenza patologica ed interamente una persona deve avere potuto fare esperienza in infanzia di essere amata senza ambivalenze dai suoi genitori. L'ambivalenza dei genitori verso i figli è patogenetica. Quando un genitore dice "non l'ho mai sgridato", ci si potrebbe chiedere "perché no?". Il figlio può crescere con ambivalenza rispetto alla propria identità. Queste persone necessitano di una cura a 3-4 sedute la settimana, necessitano di poter essere robustamente sorrette mentre vanno progressivamente ad accorgersi di quanto capita ed è capitato dentro di loro. Per la diagnosi è necessario poter affrontare con la coppia genitoriale a come è avvenuto il concepimento. L'impatto dell'ambivalenza è necessariamente maggiore nelle persone emotivamente vicine che in quelle lontane e, così, sui nostri figli piuttosto cvhe sui figli degli altri.

Bibliografia:
Laplanche e Pontalis - Enciclopedia della psicoanalisi

Sándor Ferenczi

Nato a Miskolc il 16 luglio 1873 e deceduto a Budapest il 22 maggio 1933, è stato un medico, psichiatra ed uno dei pionieri della psicoanalisi in Ungheria e fra le figure più importanti al mondo in tale campo.
Il 2 febbraio 1908 fa visita a Sigmund Freud, dando avvio a un sodalizio strettissimo, che durerà per tutta la vita. Il suo impegno all'interno del movimento psicoanalitico è immediato: al Primo Congresso di Psicoanalisi, che si tiene a Salisburgo quello stesso anno, presentando una lecture sul tema "Psicoanalisi e psicopedagogia".

Claude Monet: Virtual Narcissus

Claude Monet was born in Paris in 1840. His mother was thirty-five years old and already the childless widow of a first husband at the time of Monet's birth. Her second husband, Monet's father, was then forty, and her only other child, Monet's only full sibling, a brother, was four. By the time Monet was five, he and his family had moved to the port town of Le Havre, where his father was in the business of provisioning France's commercial shipping fleet. It was there, in this town where the Seine River spills into the English Channel, that Monet's mother is said to have encouraged her son's early interest in art; and it was there that she died in 1857 when he was not yet seventeen years old but already within a year of establishing himself as a draftsman of some notoriety on the strength of caricatures of local personalities exhibited in the window of a framer's shop.1
By 1860 Monet had taken up painting, and in that year he found himself at the age of twenty with a new half-sister born to his sixty-year-old widowed father and his father's twenty-four-year-old mistress, a sibling who until 1974 was entirely unmentioned in the literature on the artist. Perhaps represented at her father's side staring out to sea in a painting of 1867, Monet's half-sister was legitimated in 1870 byway of his father's second marriage, a marriage that took place a mere three months before Monet's father's death and only four months after Monet's own first marriage had similarly legitimated his three-year-old son.
When Monet's father died in 1871 his son was in London, in flight from military service in the Franco-Prussian war, the war that claimed the life of one of Monet's closest friends, the painter Frédéric Bazille. Upon his return to France, Monet established himself and his family in the outer suburbs of Paris at Argenteuil, where his colleague Edouard Manet painted the artist and his family in their garden in 1874, and where Manet painted Monet at work on the Seine in his studio boat, in the company of his wife but turning away from her gaze to grasp the environing riverscape by the tip of his brush. Penniless by 1878, and forced to leave Argenteuil with a sick and pregnant wife for an apartment in Paris, Monet was apparently unable to provide all the necessities to the postpartum mother, who would be represented in his art one last time lying on her deathbed in the tiny Seine-side village of Vétheuil, dead of uterine cancer in 1879 at the age of thirty-two.

What the author sees in Monet's painting is not the Real trauma of the subject's desiring look, nor yet the Imaginary reflex of the mother's mirrored gaze, but precisely what Cézanne so notoriously described in Monet's art, that is, the Symbolic effect of the paternal positioning of the desiring and mirroring individual as nothing but the picture's tache or objectal stain. “Monet is only an eye; but good God what an eye!” (Shiff 1984, 280). Just what kind of an eye/I is this?
Seen with God's eye from the unseen angle of “pèrespective,” Monet's painting is “a self-portrait in which the subject will see himself as he cannot see himself, a vision of horror in which his own nullity appears to him” (Borch-Jacobsen 1991, 237). “This rapid painting, this portrait without gaze,… indifferent to all spirituality, even in a face” (Régamey 1927, 89; Levine 1994b, 283) bodies forth the opaque pigmented screen “by means of which we confront the utter nullity of our narcissistic pretentions” (Žižek 1991b, 64). In the congealed gestural traces of his Self-Portrait, Monet “makes visible for us here something that is simply the subject as annihilated” (Lacan 1978, 88-89).16 “This man was in reality … a daily tormented person, at the same time a solitary person with an idée fixe, racking his brains into exhaustion, forcing his will to the fixed and desired task, pursuing his dream of form and color almost unto the annihilation of his individuality in the eternal Nirvana of things at once changing and immutable” (Geffroy 1922, 335; Levine 1994b, 260). Here Monet's biographer unknowingly repeats Freud's contemporaneous postulation of a Nirvana principle as the self-voiding impetus of narcissism, a Real principle of repetition and discharge whereby the self is obscurely driven “beyond the pleasure principle” to abdicate its Imaginary erotic teleology in favor of a concentration and, ultimately, a Symbolic annihilation of all erotic investment within itself. “We have unwittingly steered our course into the harbour of Schopenhauer's philosophy. For him death is the ‘true result and to that extent the purpose of life’” (Freud 1920, 49-50). This from the Freud least amenable to the affirmations of ego psychology and most resigned to the negations of Lacan and, I believe, Monet as well. “The function of the work of art is to render the void sufferable” (Schneiderman 1990, 211).

Tratto da:
Levine, S.Z. (1996). Virtual Narcissus: On the Mirror Stage with Monet, Lacan, and Me. Am. Imago, 53:91-106.